Vademecum dell’astronautico dilettante 5

Vademecum dell’astronautico amatoriale.
Tutto o quasi quello che c’è da sapere sulle tecniche astronautiche.

Dopo la Storia dell’Astronautica, ecco un altro regalo a tutti gli amici di Forumastronautico. Se trovate errori o imprecisioni non esitate a correggere il testo.

Parte 5. I veicoli spaziali abitabili.

I primi progetti di veicoli spaziali vedevano a bordo la presenza umana. Si trattava di veicoli alati capaci di volare nell’atmosfera e nello spazio, ma i primi esperimenti scoraggiarono la realizzazione di tali veicoli, il cui sviluppo sarebbe stato oltre le capacità economiche, tecnologiche ed i tempi di realizzazione troppo lunghi. Per rispondere a necessità impellenti i primi veicoli erano degli involucri che dovevano garantire la sicurezza degli occupanti. Tali veicoli sono meglio conosciuti come capsule o navicelle spaziali. In alcuni casi erano letteralmente cucite addosso all’equipaggio, quasi indossate. Tali veicoli rispondevano a requisiti operativi minimi, infatti le riserve di energia e di propellenti o erano inesistenti o avevano un’autonomia estremamente limitata. Questo perché anche con le capsule si era deciso d’applicare la stessa filosofia dei missili, ovvero liberarsi di tutti gli apparati inutili scomponendo il veicolo in più moduli. Il modulo principale era la capsula stessa, adibita a servire come vero mezzo di trasporto dell’equipaggio. Sotto la capsula era invece sistemato un modulo di servizio contenente i generatori d’energia elettrica, serbatoi e tutto quanto occorreva alle manovre ed al mantenimento in vita dell’equipaggio, ad esclusione dei viveri. Alcune capsule però sono dotate di un ulteriore modulo agganciato alla parte alta e collegato con un portello stagno, questo perché serve come volume abitativo e stiva per l’equipaggio. Sia questo modulo aggiuntivo che il modulo di servizio si sganciano dalla capsula nelle fasi che precedono il rientro in atmosfera.
Progettare un veicolo che deve trasportare un equipaggio è ancora oggi una sfida tecnologica. Infatti il veicolo deve essere pressurizzato, ovvero mantenere al suo interno una pressione, temperatura e composizione dell’aria entro certi limiti. Deve trasportare serbatoi per l’acqua nei modelli più semplici ed offrire un minimo comfort in quelli più evoluti, senza contare i numerosi dispositivi di sicurezza ed emergenza, il quadro comandi e spazi per gli esperimenti. E’ incredibile quante attrezzature possono essere portate a bordo delle capsule spaziali, ma ovviamente l’equipaggio non può disporre di cuccette, locali cucina ed altri locali che rendano più abitabile lo spazio. La filosofia è un pò quella dei velivoli militari dove il comfort è sacrificato al fine del mezzo. Nonostante gli spazi angusti e ristretti delle capsule, comunque gli equipaggi hanno sopportato i disagi, comunque limitati nel tempo, portando a termine le missioni loro assegnate.
Anche le capsule sono progettate in base alle manovre che saranno destinate a compiere durante tutto l’arco di una missione. Le differenze, seppur minime, sono comunque evidenti e spesso rendono unici i vari modelli. Dal momento che i tipi di capsule non sono molti, è possibile analizzarli nello specifico, a differenza di quanto fatto per missili, satelliti e sonde spaziali.
I primi tipi, primi anche in ordine temporale, sono le capsule tipo Vostok e Voskhod, evoluzione delle prime. Sono il tipo di capsula più semplice che si possa realizzare. Si tratta di sfere cave. Prive di propri sistemi propulsivi, queste capsule effettuavano un rientro puramente balistico, quindi senza che l’equipaggio potesse effettuare nessun tipo di manovra una volta che la capsula si sganciava dal modulo di servizio. A guidare la capsula nelle delicate fasi del rientro era la struttura stessa, realizzata con uno spessore maggiore nella parte destinata ad affrontare l’attrito con l’aria, che si portava da sola in posizione essendo il centro di massa del veicolo spostato proprio dalla sua parte. Il sistema si rivelò valido ed efficace, tanto che le capsule Voskhod sono ancora oggi in produzione, ma sono utilizzate solo per voli disabitati dove c’è la necessità che il carico ritorni sulla Terra. Tutti gli altri tipi di capsula invece, pur potendo effettuare un rientro balistico, sono state progettate perché il rientro sia pilotato. Queste sono di forma conica come le Mercury, le Gemini e le Apollo, o fusiforme tronco come le Soyuz e le Shenzhou, solo per via della posizione che hanno una volta poste in cima al missile lanciatore, se esse diventano la parte terminale vera e propria del missile o sono protette da appositi pannelli. Tutte comunque presentano uno scudo termico convesso in basso che alle velocità ipersoniche a cui avviene il rientro, se inclinato nel modo corretto, produce due forze, una che si oppone a quella gravitazionale ed un’altra che si oppone alla velocità stessa del veicolo. Questo può portare la capsula a rimbalzare contro l’atmosfera terrestre, quindi a guadagnare di nuovo quota, ma nel frattempo lo scudo termico si raffredda ed al successivo impatto con l’atmosfera dovrà sopportare degli sforzi minori. Questa manovra è definita “piastrellare”, come un sasso piatto lanciato su uno specchio d’acqua che lo rimbalza più volte. Per fare tutto questo ovviamente occorre un controllo, perché il veicolo tende a cambiare assetto non essendo in equilibrio. Durante la fase di rientro in atmosfera come detto in precedenza, intorno al veicolo si sviluppa un cono d’aria ionizzata, vagamente simile a fiamme, che ostacola le comunicazioni via radio, quindi in questa fase l’equipaggio deve cavarsela da solo e non può chiedere aiuto.
Terminata la fase di rientro, la capsula inizia a precipitare. Lo scudo termico ha infatti perso le sue proprietà aerodinamiche che possiede solo in volo ipersonico. A questo punto si liberano i paracadute che accompagneranno la capsula fino a terra. Alcuni tipi di capsula, molto prima di toccare terra si liberano dello scudo termico, peso in meno per i paracadute ma anche un elemento molto pericoloso perché ancora rovente e nell’impatto con il terreno potrebbe provocare un incendio, per cui è liberato prima perché cada il più distante possibile dalla capsula. Infine, a poca distanza dal terreno alcune capsule possono utilizzare degli speciali retrorazzi per garantire un impatto il più morbido possibile.
Altre capsule invece si preferisce farle ammarare. L’impatto con l’acqua è certamente meno duro di quello con la terra, inoltre le capsule sono a tenuta stagna ed il rischio che affondino è piuttosto remoto. Una volta impattato la superficie di un oceano si aprono speciali salvagenti per consentire la galleggiabilità della capsula, una volta che viene aperto il portello per consentire l’uscita dell’equipaggio.
In tutte le capsule, lo scudo termico è parte integrante della struttura stessa, anche se quello di fondo è staccabile. Pertanto una volta rientrata a terra una capsula non è più riutilizzabile se non come pezzo da museo. Progetti di capsule riutilizzabili comportavano costi aggiuntivi, rischi e tempi di realizzazione troppo lunghi, per cui si è sempre preferito utilizzare veicoli a perdere, costosi sì, ma più facili da gestire e realizzare. Però con il tempo le tecnologie sono maturate e si è cercato di realizzare un veicolo riutilizzabile.
La navetta spaziale o space shuttle. La filosofia di base era quella di realizzare un veicolo riutilizzabile il più possibile e versatile, con il quale iniziare l’industrializzazione dello spazio e la sua colonizzazione. Per al sua configurazione furono proposti molti progetti ed alla fine vinse quello attuale, composto da due grandi razzi ausiliari a combustibile solido agganciati ad un grande serbatoio che a sua volta era agganciato ad un veicolo alato, detto orbiter.
Il profilo tipico di una missione della navetta spaziale vede il decollo in verticale come un missile sfruttando la spinta dei razzi ausiliari, che al momento iniziale dell’accensione, in attesa che vadano in pressione, sono coadiuvati dai tre razzi principali dell’orbiter. Esaurito il combustibile i due razzi ausiliari si sganciano ed i razzi dell’orbiter vengono portati a piena potenza fino al raggiungimento della quota e della velocità prevista dal profilo di missione. A questo punto vengono spenti, il grande serbatoio si sgancia e si disintegrerà di lì a poco nell’impatto con l’atmosfera terrestre. Questo è l’unico elemento a perdere di tutto il sistema navetta spaziale. Ora che l’orbiter è libero, accende i suoi razzi di manovra e si porta alla quota ed alla velocità previste, quindi apre i portelli della stiva per permettere ai radiatori di lavorare efficacemente e per esporre il carico al vuoto spaziale, cosa solitamente richiesta. Terminata la missione i portelli della stiva vengono chiusi, quindi l’orbiter ruota di 180° portandosi con la coda in direzione del moto ed accende i razzi di manovra per rallentare. Ottenuto il rallentamento l’orbiter si riporta con il muso in avanti ed inizia la fase di rientro. L’orbiter è troppo grosso perché venga costruito con la stessa filosofia della capsule spaziali. Lo spessore del suo scudo termico dovrebbe essere tale da rendere il suo peso impossibile da portare nello spazio e buttare un veicolo di tali dimensioni a fine missione è un costo insostenibile. L’orbiter sfrutta come scudo termico degli speciali scudi in grafite, di colore grigio chiaro, che proteggono il muso, il bordo d’attacco delle ali e del timone, che sono le zone dove le temperature raggiungono i valori più elevati. Il resto dell’orbiter è ricoperto di piastrelle nere, il ventre, bianche e grigie il resto, tutte in speciali materiali ceramici che hanno la caratteristica di non condurre calore. Tutte le decine di migiaia di piastrelle sono incollate allo scafo dell’orbiter manualmente, un lavoro da veri artigiani ed ogni piastrella può essere incollata solo e soltanto nel suo posto perché sono tutte di forma diversa, quasi un puzzle. La precisione nell’applicazione dev’essere particolarmente curata. Infatti è stato condotto un esperimento dove una delle piastrelle nere sotto un’ala era sporgente di pochissimo. Osservata con speciali telecamere all’infrarosso, in fase di rientro s’è visto che generava più calore delle altre ed i sensori di bordo registravano uno squilibrio nell’assetto dell’orbiter, rientrato nella norma una volta che la velocità scese sotto i livelli supersonici.
Durante la fase di rientro, anche l’orbiter è circondato da un cono d’aria ionizzata, ma grazie ad un satellite posto in orbita è possibile mantenere i contatti con il veicolo anche in questa fase delicata. Terminata questa fase l’orbiter dev’essere ancora pilotato usando i razzi di manovra finchè la velocità non scende al di sotto dei 7.000 Km/H, solo sotto a questa velocità le ali ed il timone iniziano a rispondere ai comandi ma non è più possibile utilizzare nessuna forma di propulsione autonoma (i razzi di manovra diventano imprecisi) e quindi si trasforma in un grosso aliante. Gli astronauti che hanno pilotato l’orbiter in questa fase dicono che la navetta ha le stesse doti aeronautiche di un ferro da stiro. Ovviamente non è progettata per il volo acrobatico ed il suo assetto di volo è fortemente in picchiata. In prossimità della pista il pilota fa compiere all’orbiter una manovra ad S, per ridurre velocità e quota e per allinearsi con la pista d’atterraggio. Vengono abbassati i carrelli come un comune aereo ed atterra sulla pista. Dopo aver notato che gli speciali freni al carbonio erano troppo sollecitati e che non c’era modo d’installare freni più potenti, sotto al timone dell’orbiter è stato installato un contenitore che, appena atterrato, rilascia un paracadute ad effetto frenante, giusto per alleviare il lavoro dei freni.
La missione è quindi terminata, ma resta da svuotare la stiva dell’orbiter, quindi portarlo in appositi ricoveri dove sarà letteralmente smontato pezzo per pezzo per sostituire componenti guasti, logori o giudicati non più affidabili. Ovviamente tale operazione di smontaggio e rimontaggio comporta costi enormi, anche se il veicolo ed i suoi grandi razzi ausiliari sono riutilizzabili. In effetti gli orbiter hanno effettuato più di un centinaio di voli in più di vent’anni di servizio,ma erano pensati per garantire almeno un centinaio di voli annui, quantomeno le versioni successive. Gli alti costi di gestione hanno impedito che l’attuale flotta di orbiter, che potremmo definire dei prototipi, venisse sostiuita da veicoli tecnicamente più avanzati. Nel corso di questi anni comunque gli orbiter sono stati aggiornati. Anche esteticamente nella disposizione delle piastrelle ceramiche si sono evoluti, ma ciò è servito solo a renderli più sicuri rispetto ai primi voli. L’impossibilità di sostituirli ha costituito un grosso ostacolo per la NASA, l’ente spaziale che li gestisce, impedendogli di realizzare un loro degno sostituto e limitando le attività spaziali dell’ente stesso. Tale situazione non poteva ovviamente protrarsi a lungo. Così è stata presa la decisione di pensionare le navette spaziali dopo più di vent’anni di comunque onorato servizio, nonostante i due tragici incidenti che ne hanno segnato la storia. Se non hanno consentito di fare centinaia di voli all’anno, hanno comunque permesso di realizzare un numero enorme di esperimenti in orbita, lanciato satelliti e sonde spaziali, aggiustato e recuperato satelliti, si sono agganciate a laboratori spaziali ed hanno consentito la realizzazione della prima stazione spaziale orbitante. Salvo mandare uomini su altri corpi celesti, hanno consentito di realizzare tutti i fini per cui erano state progettate, almeno nei limiti delle loro capacità.
Mentre le navette spaziali si avviano al pensionamento, nuovi e vecchi veicoli s’affacciano sulla scena spaziale dei voli umani. Il sostituto della navetta spaziale sarà nuovamente una capsula mentre anche società private spingono per accedere allo spazio con voli pilotati, togliendo il primato ai grandi enti spaziali. Ecco per concludere un breve elenco del tipo di veicolo che ha raggiunto lo spazio esterno e della sua nazionalità in ordine quasi cronologico.

Capsula a rientro balistico         Vostok                        URSS
Aerorazzo in volo suborbitale       X-15                          USA 
Capsula a rientro pilotato          Mercury                       USA 
Capsula a rientro balistico         Voskhod                       URSS
Capsula a rientro pilotato          Gemini                        USA
Capsula a rientro pilotato          Apollo                        USA
Capsula a rientro pilotato          Soyuz (T, TM, TMA)            URSS/RUSSIA
Navetta spaziale                    Columbia (perso nel 2003)     USA
Navetta spaziale                    Challenger (perso nel 1986)   USA
Navetta spaziale                    Discovery                     USA
Navetta spaziale                    Atlantis                      USA
Navetta spaziale                    Endeavour                     USA
Navetta spaziale                    Buran                         URSS
   (un solo volo, in automatico)    
Capsula a rientro pilotato          Shenzhou                      CINA
Aerorazzo in volo suborbitale       SpaceShipOne                  USA
   (privato)```
       
         
Ares Cosmos

Perdonate lo sbilenco elenco finale, ma nel file originale era allineato corretto, nella trasposizione sul forur si è perso un pò.
Ciao.