Pazza idea.

E se la NASA,invece di inseguire il DCX ed il “Venture Star” avesse semplicemente rimesso mano al progetto originale dello Space Shuttle rimodernandolo,fornendolo di una cabina staccabile in caso di aborto,e rendendo il lanciatore totalmente automatizzato?

Senza alcun dubbio sarebbe stato molto meglio , proseguire con lo Shuttle, modificandolo e migliorandolo tenendo conto dei vecchi progetti di studio.
Si sarebbe potuto modificare utilizzando un ET completamente recuperabile.

Io parlavo propio di rimettere mano alla configurazione originale ad ala dritta,rendendo il lanciatore totalmente automatizzato (come il LIRA con l’ARIES).

Beh, Carmelo, direi che la riflessione è molto intrigante.

La configurazione ad ala dritta fu pensata dalla geniale mente di Maxim Faget (il papà delle Mercury), ed aveva come punto di forza la semplicità, le migliori prestazioni in regime subsonico (beh in teoria a regime supersonico questo tipo di ala non genera portanza), ed il peso notevolmente ridotto rispetto alle grosse ali triangolari della configurazione a delta, adottata dal presente shuttle.

D’altra parte bisogna avere le idee chiare su cosa si perde, rinunciando all’ala a delta: ottima portanza a velocità supersonica, migliore gestione della fase di passaggio tra volo super e subsonico, e soprattutto, minore “crossrange”.

Vista l’esperienza STS, direi che se anche le navette made in USA avessero adottato l’ala dritta, beh, non vi sarebbe stato alcun problema, anche in considerazione che la configurazione a delta, voluta principalmente dall’USAF per l’elevato crossrange, non è mai stata realmente sfruttata nei suoi punti forti.

Però mi chiedo se avrebbe ancora senso sposare il design a “spazioplano” se si decide di separare la fase di lancio del Payload da quella dell’equipaggio.
Per il lancio di soli payload, allora la configurazione di Faget potrebbe realmente essere vincente, per il trasporto di equipaggi, beh, non vedo la necessità di andare oltre la configurazione a lfting body, o a capsula.

Se poi si vuol portare in orbita dei militari in missione ricognitiva, allora un mini shuttle con ala a delta (X-20 Dynasoar…) è la soluzione più azzeccata.

Una domanda che puù sembrare stupida. Ma con un’ala dritta non aumenta vertiginosamente la resistenza al momento del rientro in atmosfera?

Nel 1969-70 il progetto era questo:


01.jpg

continua…

continua…

Quì siamo nel 1971 e ci aveva già messo mano l’USAF (vedi le ali a delta),ma la navetta non era ancora sovradimensionata,e continuava il concetto di veicolo madre interamente riutilizzabile,con equipaggio.Inoltre erano previsti dei jet per il rientro.La capacità di carico era più limitata.Nell’ultimo disegno lo Shuttle sta assemblando una stazione.Notate quanto piccoli siano i moduli.

Grazie Carmelo per averci ricordato quella che, a mio avviso, era la migliore tra tutte le possibili configurazioni dello Shuttle originale.
Tra l’altro esiste un esauriente descrizione di questo progetto (insieme agli altri) nella “bibbia dello Shuttle” di Dennis R. Jenkins che consiglio caldamente a chiunque sia interessato alla storia della navetta spaziale.

Concettualmente parlando si trattava di un TSTO (Twin Stage To Orbit) cioé nell’accoppiare due veicoli recuperabili, nei quali il primo stadio rientrava a terra dopo aver accellerato il secondo stadio verso l’orbita.
In effetti in questa tipologia ricade anche l’accoppiata ARIES AB/LIRA.

Per Maxi: quel tipo di ala diritta, da un punto di vista aerotermodinamico, diventa ininfluente in regime ipersonico agli alti angoli di attacco previsti per il rientro nell’amtosfera, così come correttamente raffigurato nei disegni allegati da Carmelo.
Del resto anche l’ala a delta dello Shutlle diviene davvero efficiente a partire da Mach 6/7…

Beh, Carmelo, direi che la riflessione è molto intrigante.

La configurazione ad ala dritta fu pensata dalla geniale mente di Maxim Faget (il papà delle Mercury), ed aveva come punto di forza la semplicità, le migliori prestazioni in regime subsonico (beh in teoria a regime supersonico questo tipo di ala non genera portanza), ed il peso notevolmente ridotto rispetto alle grosse ali triangolari della configurazione a delta, adottata dal presente shuttle.

D’altra parte bisogna avere le idee chiare su cosa si perde, rinunciando all’ala a delta: ottima portanza a velocità supersonica, migliore gestione della fase di passaggio tra volo super e subsonico, e soprattutto, minore “crossrange”.

Vista l’esperienza STS, direi che se anche le navette made in USA avessero adottato l’ala dritta, beh, non vi sarebbe stato alcun problema, anche in considerazione che la configurazione a delta, voluta principalmente dall’USAF per l’elevato crossrange, non è mai stata realmente sfruttata nei suoi punti forti.

Però mi chiedo se avrebbe ancora senso sposare il design a “spazioplano” se si decide di separare la fase di lancio del Payload da quella dell’equipaggio.
Per il lancio di soli payload, allora la configurazione di Faget potrebbe realmente essere vincente, per il trasporto di equipaggi, beh, non vedo la necessità di andare oltre la configurazione a lfting body, o a capsula.

Se poi si vuol portare in orbita dei militari in missione ricognitiva, allora un mini shuttle con ala a delta (X-20 Dynasoar…) è la soluzione più azzeccata.

Giravo per il sito e mi sono imbattuto in questo post. Vorrei dire qualcosa a riguardo.

L’ala a delta o comunque un ala triangolare (lo Shuttle utilizza un doppio delta) è stata una necessità rispetto ad altre scelte progettuali quali lifting bodies o addirittura l’ala dritta. Vi elenco le ragioni:

  1. l’ala a delta presenta un elevato L/D in ipersonico maggiore di qualsiasi altra soluzione (fig 1). Avere un elevato L/D comporta minori g-loads, minori flussi termici a parità di coefficiente balistico (questo non è immediato capirlo ma fidatevi), maggiore manovrabilità e naturalmente maggiore cross-range.

  2. l’ala a delta presenta come ala triangolare un elevata superficie e di conseguenza un basso “carico frontale” (rapporto PesoTotaleVeivolo e superfice della superficie lifting). Un basso W/S comporta un picco massimo della decelerazione e del flusso termico a maggiori altitudini: il che comporta una decelerazione e flusso termico minore. Un basso W/S comporta anche velocità minima di atterraggio bassa.

  3. l’ala a delta è un design di compromesso che genera una portanza sufficiente a basse velocità incrementando l’angolo di attacco, ma anche ottime performances in supersonico. Per il subsonico l’aspetto dominante è rappresentato dai due vortici che scorrono lungo il lato superiore dei bordi di attacco. Questi vortici sono creati dal fatto che la differenza di pressione tra il dorso ed il ventre riesce ad incurvare il flusso sopra i bordi di attacco. I vortici primari sui bordi di attacco sono forti e stabili anche a grossi angoli di attacco con una distribuzione di pressione del tipo in figura 2. L’effetto globale di questa distribuzione porta uno stallo a grandi valori di α (tipicamente 30-40°) con valori di CL dell’ordine di 1.2-1.4.

  4. l’ala a delta presenta un effetto suolo (cuscino d’aria in prossimità dell’atterraggio) che permette un atterraggio dello Shuttle più “morbido” considerando una velocità di atterraggio più alta rispetto a veivoli convenzionali.

L’idea dell’ala dritta avrebbe senso solo se si considerasse un’ala a grande allungamento ed un reentry path con un basso angolo di rientro. Questo non mi sembra il caso dei primi studi di shuttle con ala dritta (si vede anche un disegno con lo shuttle con ala dritta che spancia…). In questo caso si diminuiscono notevolmente i flussi termici ma si aumentano fino a due ore il tempo del rientro con un aumento di calore totale (cioè l’integrale del flusso termico nel tempo): il che potrebbe significare comunque un sistema di protezione termica meno performante ma significativamente più pesante.

In definitiva credo che rispetto alle tecnologie di protezione termica anni '70 l’ala a delta sia stata una scelta praticamente obbligata.

Come sempre Buran riesce a dare una spiegazione tecnica chiara ed esauriente :smiley:

Dato che lui ha accennato al problema del rientro con bassi angoli di incidenza (rispetto allo Shuttle che nella fase iniziale ha un angolo di incidenza pari a ben 40°), e quindi con traiettorie più lunghe e “spalmate” devo segnalare il lavoro del Prof. Rodolfo Monti, direttore del DISIS (Dipartimento di Scienza ed Ingegneria dello Spazio “Luigi G. Napolitano”) della Università “Federico II” di Napoli.

Da un paio d’anni a questa parte il Prof. Monti, ed il suo team tra i quali il Prof. Raffaele Savino, stanno investigando (con l’aiuto di speciali codici numerici e sofware di simulazione) una serie di configurazioni specifiche con l’intento di ottenere una traiettoria di rientro più lunga e “morbida” e con angoli di incidenza più bassi e, di conseguenza, coefficienti di portanza più elevati (ricordiamoci che durante il rientro lo Shuttle si comporta come un Lifting Body).

Naturalmente esistono tutta una serie di problematiche legate al trasferimento di calore, visti i tempi più lunghi di rientro, e di controllo del flusso termico.