PIANTERANNO la bandiera su Marte in nome del genere umano?

IN MISSIONE VERSO IL PIANETA ROSSO? GLI PSICOLOGI DI ESA E NASA TEMONO REAZIONI INCONTROLLABILI
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31/5/2006

PIANTERANNO la bandiera su Marte in nome del genere umano e quel momento sarà straordinario. Ma proprio in quel momento gli astronauti sentiranno il peso immenso della lontananza dalla Terra, dai loro simili e dalle loro famiglie e percepiranno l’angoscia del di essere quasi perduti nel Sistema Solare, di dover cominciare un’esplorazione rischiosa e di avere di fronte un lunghissimo viaggio di ritorno. Come dicono gli astronauti, «nello spazio nessuno può sentirti urlare». «E’ un aspetto sottovalutato dai non addetti ai lavori - spiega Gro Sandal, psicologa norvegese, studiosa di missioni spaziali -: è il tremendo impatto psicologico a cui saranno sottoposti gli astronauti destinati al primo viaggio sul Pianeta Rosso». Lo sanno bene l’ESA e la NASA, che stanno pianificando una missione umana su Marte entro il 2030. In tutto quasi tre anni, in cui l’equipaggio - cinque o sei astronauti - vivrà sempre sotto pressione, in uno spazio limitatissimo e in condizioni estreme, dove il minimo errore potrebbe essere fatale. Dalle simulazioni nelle camere iperbariche, dalle missioni in Antartide e dalle esperienze sulla Stazione Spaziale Internazionale, Sandal ipotizza che «nelle prime settimane molte energie saranno spese per adattarsi all’assenza di gravità: l‘euforia scomparirà e, poiché il sistema vestibolare cessa di funzionare correttamente, si potrebbero avere casi di SAS, la Sindrome da Adattamento allo Spazio, con nausea, disorientamento e mal di testa». Inoltre potrebbe essere difficile dormire, perché «nello spazio si altera l’orologio biologico». Gli astronauti saranno supportati dai medici di missione, ma appena le comunicazioni diventeranno difficoltose - fino ad avere, in prossimità dell’arrivo su Marte, un ritardo di almeno 40 minuti tra l’invio di un segnale e la ricezione della risposta da Terra - il senso di isolamento potrebbe diventare predominante, determinando attacchi di malinconia e facendo precipitare la motivazione. «Già dopo tre-quattro mesi la monotonia delle operazioni potrebbe determinare un calo di attenzione, aumentando il rischio di incidenti. Ecco perché la rotazione dei ruoli tra l’equipaggio e un programma di esperimenti il più possibile vario diventa fondamentale». La navicella, inoltre, sembrerà sempre più piccola. A causa della mancanza di privacy gli astronauti potrebbero diventare nervosi (è l’astenia) e non si possono escludere forti tensioni nel gruppo, unite ad ansia, insonnia e claustrofobia. Per risollevare il morale dovrebbero essere previsti piccoli compartimenti nascosti, da aprire mediante codici mandati via email: «Nascondere lettere e regalini al loro interno aiuterà a superare i momenti di crisi e la sensazione di isolamento». Dopo circa cinque mesi gli astronauti dovrebbero ritrovare la giusta motivazione: finalmente vedranno il Pianeta Rosso sempre più vicino e vorranno essere pronti al grande appuntamento. Organizzeranno simulazioni a catena per ripetere le procedure di avvicinamento e riscopriranno lo spirito di gruppo. Superata la prova dell’atterraggio, saranno di nuovo euforici, ma è a quel punto che comincerà una nuova e difficile fase: rimarranno su Marte per 18-20 mesi, esplorando il pianeta, in attesa del momento del rientro. Ritroveranno l’alternanza del giorno e della notte (la giornata marziana dura 24 ore e 37 minuti) e una parziale gravità (un terzo di quella della Terra): questo li metterà di buon umore. Avranno più spazio per vivere: ESA e NASA prevedono una missione robotizzata, prima dello sbarco, per trasportare l’infrastruttura abitativa adatta a ospitare l’equipaggio. Ma, superata la fase di curiosità delle «passeggiate», la pericolosità e la ripetitività delle operazioni (oltre la stanchezza) potrebbero provocare nuovi attacchi di stress, cattivo umore, affaticamento e insonnia. Dopo mesi insieme, in base alle affinità caratteriali, si potrebbero creare gruppetti isolati, generando incomprensioni e tensioni nei rapporti, fino a rendere impossibile il lavoro in team. E’ allora che l’isolamento potrebbe diventare insopportabile: le difficoltà nelle comunicazioni con la Terra, l’immenso deserto di «sabbia rossa» e la paura di non riuscire più a ripartire potrebbero generare attacchi di panico e gravi depressioni, fino a sfociare in pensieri di morte ricorrenti e perfino in tentativi di autolesionismo o di suicidio. L’unica cura, in questi casi, è «un sistema di diagnosi computerizzata e l’eventuale somministrazione di psicofarmaci, con dosaggi controllati da computer». I sei mesi per il rientro sembreranno interminabili. L’equipaggio sarà esausto e così potrebbe aumentare il rischio di incidenti. D’altra parte i contatti con la Terra diventeranno più semplici e gli astronauti si sentiranno sempre meno isolati. Poi, a Terra, dovranno riabituarsi alla gravità. La riabilitazione fisica e psicologica potrebbe essere lunga, ma - come insegna l’esperienza della Stazione Spaziale - i casi di depressione post-missione dovrebbero essere controllabili. Per ora la strada è in salita e, per arrivare in cima entro il 2030, bisogna lavorare moltissimo. Ma Gro Sandal resta fiduciosa: «Oltre all’accurata selezione dell’equipaggio, sarà fondamentale un rigoroso addestramento psicologico». Basterà?

David Avino
da La Stampa Web

Confido anche che per il 2030 la tecnologia sara in grado di risolvere molti di questi probblemi .

Proprio nella risoluzione di queste questioni sta lo spirito dell’esplorazione umana dello spazio!
Questo è il tipo di ricerca adatto allo svolgimento sulla ISS, che rischia di diventare troppo presto una cattedrale nel deserto (ahem, nello spazio).

A tale proposito segnalo l’ottimo libro “Spacefaring” di Albert A. Harrison, che tratta il problema a 360 gradi…

Ecco la recensione: http://www.deepspace.it//index.php?option=com_content&task=view&id=98&Itemid=69

E’ molto interessante anche se non è nuovissimo.

Sara comunque indispensabile inventare( o migliorare ) una nuova propulsione ,e magari sarebbe auspicabile che si riuscisse a trovare un modo per creare almeno un minimo di gravità.