Rientro mix Marco Polo: racconto del Col. Vittori

Salve!

Su un libro fuori commercio dello Stato Maggiore Aeronautica, “I Piloti Raccontano”, (2003), c’è un contributo del Col. Roberto Vittori, che racconta la fase di rientro della missione Marco Polo.
Lo trascrivo qui sotto!

Spero non sia già stato postato in passato, semmai Admin cancella pure senza pietà! :slight_smile:

P.S.: nella sezione Shuttle ho trascritto un contributo del Col. Cheli dallo stesso libro.

RIENTRO CON LA SOYUZ

di Roberto Vittori

La Stazione Spaziale Internazionale (ISS) è un enorme laboratorio che orbita a circa 400 km dalla superficie terrestre a una velocità di circa Mach 25 (a quella quota 25.000 km/h). Gli astronauti arrivano alla stazione a bordo dello shuttle o della Soyuz.
I particolare, la missione Marco Polo, decollata da Baikonour il 25 aprile 2002, era arrivata alla Stazione il 27 aprile, e dopo 8 giorni di permanenza si accingeva ad effettuare i preparativi del rientro a Terra.
È il 5 maggio 2002, ore 02.45 GMT: l’equipaggio, composto da Yuri Gidzenko, da me e da Mark Shuttleworth, lascia il modulo centrale della Stazione Spaziale Internazionale per trasferirsi sulla Soyuz TM-33. La procedura di rientro inizia con la fase di “undocking”, ossia di distacco dalla stazione, seguita poi dall’allontanamento di sicurezza per evitare possibili collisioni. Segue l’accensione di retrorazzi per stabilire il corretto sentiero di discesa attraverso l’atmosfera.
L’equipaggio, a turno, completa i preparativi. La tuta “Sokol”, scafandro protettivo per eventuali perdite di pressurizzazione, deve essere indossata con l’aiuto degli altri colleghi. Completata la vestizione, seguendo un ordine preassegnato, ciascun membro dell’equipaggio si posiziona nel rispettivo seggiolino. Il primo a prendere posto sono io, come “board engineer”, sulla sedia di sinistra, poi il “cosmonaut researcher” nella posizione di destra, e infine il comandante, seduto al centro.
L’operazione è lenta e faticosa. Gli spazi interni alla capsula sono ristrettissimi. E quella sera tutto risulta anche più difficile del previsto. In microgravità la spina dorsale si rilassa, il corpo assume dimensioni leggermente superiori a quelle usuali sulla Terra, e nei ridotti volumi della Soyuz, quando anche i millimetri contano, le procedure di preparazione si complicano. Rientrare all’interno della capsula di comando della Soyuz, dopo dieci giorni in microgravità, si rivela, in alcuni casi, persino disorientante, e in quelle particolarissime condizioni, dove tutto galleggia e nulla cade, trovare la corretta posizione del corpo risulta particolarmente difficile.
Finalmente, ultimati i preparativi preliminari, come ingegnere di bordo, ho il compito di comandare l’inizio della sequenza di separazione, l’apertura sincrona dei ganci, e il successivo allontanamento dalla Stazione.
Comincia poi un periodo di attesa prima dell’inizio del conto alla rovescia per l’accensione dei retrorazzi. Gli astronauti all’interno continuano a perfezionare la posizione del corpo nello speciale seggiolino disegnato per evitare traumi alla spina dorsale al momento dell’impatto della capsula con il suolo.
La velocità della Soyuz equivale a quella della stazione madre: Mach 25. I retrorazzi la diminuiranno cosicché la traiettoria intercetterà l’atmosfera con un angolo sufficiente ad ottenere il necessario effetto frenante per la discesa finale. L’accensione dei motori viene percepita chiaramente all’interno del modulo di comando: è l’evento che rende la procedura di rientro irreversibile. Qualunque cosa accada, ora non è più possibile rimanere in orbita.
Dopo lo spegnimento dei retrorazzi il silenzio si impadronisce di nuovo della capsula, ma circa 20 minuti più tardi inizia la fase bassa di rientro: il termine tecnico russo è “razdilenia” (separazione). A circa 140 km di altezza, alcune cariche esplosive spaccano la Soyuz in tre moduli, di cui solamente quello centrale, il modulo di comando, si salverà; gli altri due bruceranno rientrando nell’atmosfera. L’esplosione è percepita come un evento traumatico dall’equipaggio.
Oltre al rumore assordante, dall’oblò sono chiaramente visibili oggetti metallici che si allontanano dal modulo di comando in maniera caotica. All’interno della capsula il fattore di carico aumenta, lentamente ma progressivamente: 0.5, 1 2, 3, 4 g.; sembrano pochi per chi è abituato ai moderni velivoli da caccia ma, essendo reduci da dieci giorni in microgravità, abbiamo difficoltà anche a livelli di fattore di carico relativamente modesti.
La posizione seduta, inoltre, orienta la pressione in direzione “petto-schiena” provocando un effetto di forte schiacciamento sugli organi interni come cuore e polmoni. Ad un tratto l’ interno del modulo di comando sembra impazzire.
La capsula inizia un moto rotatorio caotico e disordinato: si è aperto il paracadute. Circa due tonnellate e mezzo di metallo, plastica e umanità in caduta libera vengono improvvisamente frenate.
La stabilizzazione della discesa si fa aspettare: 30, 40, 50 lunghi secondi durante i quali la nostra capacità di mantenere il controllo della situazione è praticamente nulla.
Polvere, piccoli oggetti, e quant’altro aveva trovato rifugio durante il periodo di permanenza della capsula in microgravità, ora galleggia liberamente. Dall’ interno dello scafandro, guardando attraverso le curvature dello schermo protettivo, la percezione dell’ambiente di lavoro all’interno del modulo di comando rapidamente deteriora.
A circa cinque chilometri e mezzo di altezza, una piccola carica esplosiva apre i condotti di comunicazione tra aria interna e atmosfera. A quella quota la pressione dell’aria è circa la metà di quella a livello del mare. Ma il contatto delle due masse d’aria crea un visibile fenomeno di condensazione dell’umidità che provoca la fuoriuscita di vapore proveniente dalla parte inferiore centrale del pannello di controllo. Dall’interno della tuta spaziale, gli odori non vengono percepiti ed è facile scambiare il vapore per fumo preoccupandosi non poco. È l’esperienza del comandante a rassicurare con uno sguardo l’equipaggio.
Ci stiamo avvicinando lentamente alla superficie terrestre. L’elicottero di salvataggio ha già avvistato la capsula appesa al paracadute, e per radio chiama le quote. Manca però ancora un’ultima predisposizione: l’ammortizzatore del seggiolino assume la posizione “estesa” in preparazione al prossimo impatto con il suolo.
I seggiolini di conseguenza ruotano in avanti annullando quasi completamente lo spazio esistente tra gli astronauti e il pannello di comando. I già ridotti spazi della Soyuz diminuiscono fino a scomparire.
Una voce dall’elicottero continua a chiamare le quote: “…500 ft…400 ft… 300 ft…”.
Ormai prossimi al contatto con il suolo, provo fortissima la tentazione di guardare fuori dall’oblò, ma mi ritornano insistentemente in mente le procedure: rilassarsi prima dell’impatto. La schiena deve essere perfettamente aderente al profilo del seggiolino altrimenti si rischiano lesioni o fratture traumatiche alla spina dorsale. Braccia incrociate sul petto, gli occhi sulle luci del pannello di comando, respirare il più possibile regolare.
Un colpo brusco, istantaneo: la sensazione di essere inclinati a circa 45 gradi, ma guardando fuori, la consapevolezza visiva di un atterraggio perfetto.

E grazie anche di questo Micio :wink:

Se posso dire due parole, già dalle primissime righe dei due racconti postati si potrebbero riconoscere gli autori ad occhi chiusi, troppo inconfondibile l’aplomb tecnico-rigoroso di Vittori e la passione totale di Cheli, ognuno a modo suo ha raccontato la propria fantastica esperienza e ognuno a modo suo è riuscito a tramettere qualche cosa di quello che hanno vissuto.

E’ vero…i due approcci sono decisamente diversi. Però entrambi davvero efficaci!
Grazie anche per questo contributo!

Tra l’altro è anche simpatico vedere come Vittori ha praticamente saltato la parte del “contatto” con il suolo mentre nel blog di Anousheh Ansari era stato descritto come decisamente traumatico… certo era una donna, ma un racconto più “emozionale” sarebbe stato interessante.
http://spaceblog.xprize.org/2006/09/30/the-ride-down/

Concordo.Emozionante racconto.Grazie :slight_smile:

Racconto veramente emozionante e vivo!!!

Un racconto veramente interessante! Certo che tutte quelle esplosioni e il fumo della condensa che si diffonde nella capsula mi spaventerebbero parecchio!

Grazie nuovamente anche per questo contributo.

Dai due racconti noto tantissimo (spero che non sia solo una mia fissazione) anche la grande differenza di filosofia che sta “dietro” le due macchine (Shuttle e Soyuz); filosofia che oserei estendere anche alle due culture che le hanno progettate e costruite.
Sofisticata e quasi “comoda” lo Shuttle; essenziale, spartana ma anche tremendamente efficace la Soyuz.

Quoto in pieno.
Grazie Micionero…

Ripescato e finalmente letto.
Grazie a micionero per averlo condiviso.

Chi era presente al teatro dal verme ha sentito questa storia raccontata di persona dal col. Vittori