L’ASTROFISICO PARESCE: LE TEORIE NON BASTANO

FRANCESCO Paresce, astrofisico di fama internazionale, è nato a Londra 65 anni fa, quando il padre Gabriele era l’addetto stampa all’ambasciata italiana. Sua madre era Degna Marconi, primogenita di Guglielmo Marconi e della prima moglie Beatrice O’Brien, irlandese. Paresce ha studiato e lavorato in Italia, ma le ricerche più importanti le ha condotte a Berkeley, a Baltimora e a Monaco di Baviera. Oggi è tornato in Italia, continua a seguire importanti progetti e ha avuto l’incarico, con altri quattro scienziati, di amministrare i 12 osservatori italiani e di accorparli in un’amministrazione unica per evitare doppioni e sprechi.
Quanto è difficile il suo nuovo incarico? «E’ molto difficile, perché gli osservatori erano abituati a fare quello che volevano e in più il governo e lo Stato non danno i fondi necessari per riunirli». Nei racconti di famiglia com’era Marconi? «Una delle persone più interessanti era la madre di Guglielmo, Annie Jameson, irlandese e scozzese: è lei che ha creato e plasmato Marconi. Lui voleva fare cose molto particolari, l’elettricista o l’inventore e voleva giocherellare con le sue cose e non gli interessava la scuola. Guglielmo aveva un chiodo fisso: lungo le onde elettromagnetiche, appena scoperte da Hertz, si potevano trasmettere informazioni senza fili, a distanza? Tutti gli dicevano che non si poteva fare. E lui ce l’ha fatta». Ci sono affinità fra lei e suo nonno? «Sì, c’è un affinità forte. Sono come il nonno: dopo aver sentito teorie e discorsi accademici, ho sempre detto “ora andiamo in laboratorio a verificare”. Come il nonno ho sempre avuto una idea fissa: provare, perché l’astrofisica è basata sull’esperienza». Com’è cominciata la sua avventura con lo spazio? «Dopo la laurea sono andato a Berkeley, in California, dove ho cominciato con un gruppo che studiava i raggi X e, poi, si è dedicato all’ultravioletto e all’infrarosso. Ci è venuta in mente una cosa completamente nuova: costruire strumenti che ci avrebbero permesso di esplorare mondi diversi: prima abbiamo costruito due telescopi, uno per guardare sorgenti galattiche e stelle, e l’altro guardava invece l’alta atmosfera della Terra». Che cosa avete scoperto? «Prima di tutto una fisica nuova e una visione diversa: si pensava, accademicamente, che l’universo fosse pieno di gas e che l’idrogeno, il gas più abbondante nell’universo, impedisse di vedere oltre il nostro sistema solare. Invece noi ci siamo convinti che ci devono essere dei buchi, dove possiamo penetrare e vedere spicchi dell’universo. Ed è così». Lei ha contribuito anche al progetto Hubble: è così? «Nasceva in quel momento, a Baltimora, negli Usa, un progetto intercontinentale tra la NASA e l’ESA e sono stato chiamato come responsabile della parte europea. Si costruiva per la prima volta il grande telescopio spaziale Hubble da mandare in orbita, con una camera fotografica in ultravioletto».
Che cosa ha permesso di vedere? «Puntando nello spazio con una risoluzione mai prima realizzata, andando molto lontano, nelle bande spettrali dell’ultravioletto e in quelle dell’infrarosso, oppure studiando i corpi vicini in grandissimo dettaglio, è stata rivoluzionata l’astrofisica. Per esempio abbiamo visto l’esplosione della supernova che è avvenuta nelle Nubi di Magellano, che per noi sono vicinissime, mentre di solito le esplosioni di questo tipo sono molto lontane e difficili da vedere».
E’ poi passato ad altri progetti: perché? «Dopo 10 anni abbiamo capito che vogliamo di più. Mi sono spostato in Europa, all’Osservatorio Australe Europeo, a Monaco. C’era un’idea visionaria: costruire quattro grandi telescopi a terra, da combinare insieme. Nel 2001-02 è stata inaugurata questa combinazione a Cerro Paranal, in Cile. Adesso stiamo costruendo una rete di telescopi nuovi: sono telescopi radio da piazzare sulla montagna vicino agli altri quattro: vogliamo soprattutto vedere altre galassie e guardare che cosa accade intorno a un buco nero, anche perché è un magnifico laboratorio della teoria della relatività».
Pensate anche di realizzare un nuovo telescopio spaziale. E’ così? «In realtà non ne basterà uno, ma ce ne vorranno quattro o cinque, collegati tra loro con precisioni altissime, come avviene per i telescopi a terra. Saranno pronti nel 2015. Vogliamo vedere una Terra che non abbiamo ancora mai visto e vogliamo capire l’inizio dell’universo: non il primo milionesimo di secondo, perché quello si capisce. Quello che ancora ci è del tutto sconosciuto è il momento prima del primo milionesimo di secondo».

Ludina Barzini
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