Molti pensano che i raggi cosmici siano una barriera insormontabile alle missioni umane prolungate e in particolare a una missione umana su Marte.
Ma è veramente così?
Il Curiosity, atterrato nel Gale Crater a -4500 metri di altitudine (rispetto all livello 0 del geoide di riferimento), ha rilevato che una volta sul suolo marziano, gli astronauti sarebbero esposti a una dose di radiazioni di 15 microSv/h durante i massimi solari e di 30 microSv/h durante i minimi, valori inferiori a quelli cui sono esposti gli astronauti in LEO (25-50 microSv/h). Questo perché metà del cielo è schermato dalla massa del pianeta e l’altra metà è protetta da un’atmosfera di CO2 che per quanto rarefatta offre comuqnue un certo grado di schermatura. Facendo atterrare gli astronauti ancora più in basso, come sul fondo del Bacino di Hellas (-8000 m) i livelli di radiazione sarebbero ancora inferiori. Portandosi dietro un’attrezzatura semplice e affidabile come una vanga e una carriola, gli astronauti potrebbero ricoprire l’habitat di regolite e a quel punto sarebbero esposti alle radiazioni solo durante le EVA.
Durante un soggiorno su Marte di circa 500 giorni, gli astronauti prenderebbero una dose di raggi cosmici inferiore a quella che si è presa il cosmonauta medico Valeri Polyakov durante i sui 437 giorni sulla Mir.
C’è però il problema del viaggio, che con un orbita di Hohman dura circa otto mesi e mezzo all’andata e altrettanti al ritorno. Nello spazio, l’esposizione ai raggi cosmici sarebbe ben più alta, circa 80 mSv/h, ma anche questo non è un problema insormontabile: basta spendere un po’ più di propellente e fare durare il viaggio 4 mesi invece di 8 e mezzo, con 4 km/s di delta-V di first burn, contro i 3.5 km/s dell’orbita di Hohmann classica.
Senza contare poi che i raggi cosmici (protoni da 200 MeV di origine solare e protoni da 2 GeV di origine galattica) essendo costituiti da particelle cariche possono essere deflessi da campi magnetici: c’è un interessante apparato, messo appunto da un equipe della Washington University, gidata da Robert Winglee, che genera una mini magnetosfera protettiva attorno alla nave. Si tratta di un dispositivo molto semplice, costituito da un elettromagnete delle dimensioni d’un barilotto di birra, che circonda un iniettore di gas e un’antenna elicoidale per ionizzarlo. L’intero apparato pesa circa 30 kg e ha bisogno di 100 Kw di potenza pulsante, ovvero 6-8 Kw di potenza continua, che possono essere forniti facilmente dai pannelli solari di bordo.
http://earthweb.ess.washington.edu/space/M2P2/rad.shielding.pdf
Detto questo sulle radiazioni, vediamo un attimo l’architettura della missione: Marte e la Terra sono entrambi corpi celesti dotati di atmosfera e questo consente di utilizzarla per l’aerobraking rispermiando il delta-V del second burn: un viaggio di andata dalla Terra a Marte avrebbe quindi un delta-V di soli 3.5-4 km/s (partendo dalla LEO) perché il resto ci verrebbe regalato gratis dall’aerobraking.
Una volta su Marte, la nave dovrebbe utilizzare la CO2 dell’atmosfera marziana per sintetizzare il LOX-LCH4 necessari al viaggio di ritorno: basta un compressore e un apposito kit prodotto dalla Loockheed Martin che utilizza la reazione di Sabatier unita all’elettrolisi e al reverse gas shift. Per funzinare il kit ha bisogno di un piccolo quantitativo di idrogeno gellificato, pari al 5% del peso del propellente da sintetizzare, che la nave deve portarsi dietro. Ma basta atterrare in un posto come questo ( http://www.space.com/1371-ice-lake-mars.html ) e l’idrogeno non è più necessario, perché può essere ottenuto dall’elettrolisi del viaggio.
Il veicolo di ritorno potrebbe essere un SSTO, che su Marte ha bisogno di un rapporto di massa di 6 o 7, a seconda se si vuole tornare in 4 o in 8 mesi.
Che ne pensate?